. La nuova legge sulla responsabilità
La norma in discussione al Senato ribalta l’onere della prova. Toccherà alla vittima dimostrare l’errore sanitario. Le associazioni di difesa del malato insorgono: “Allora registrate tutti gli interventi in sala operatoria”
Secondo Federico Gelli, responsabile Salute del Partito Democratico, sono 300.000 le cause aperte che riguardano il mondo della sanità. Trecentomila contenziosi che incombono su pazienti, medici, ospedali. Che pesano sul rapporto fra sistema sanitario e giustizia, fra cura e fiducia. Una bilancia che ha perso equilibrio da entrambe le leve.
Da una parte le vittime in reparto: devono aspettare in media 872 giorni solo per avviare la pratica per chiedere un rimborso, altri 542 per ottenere una risposta; e dopo quattro anni d’attesa si trovano sempre più spesso in coda, con le loro cicatrici, di fianco ai creditori di un’Asl commissariata o alla caccia di società fantasma, come i figli di un anziano morto all’ospedale di Portogruaro, non curato per un’emorragia in atto, che hanno ottenuto un risarcimento da 600mila euro nel 2015 ma non lo riescono a riscuotere perché la compagnia assicurativa italo-rumena dell’azienda sanitaria è scomparsa.
Ma lo squilibrio si è fatto da tempo ingombrante anche dall’altra parte, quella dei medici, preoccupati dalla marcia dei “ti denuncio” in corsia: i ricorsi sono passati da tremila a 11mila all’anno contro i dottori, da 6.300 a 19.400 contro le strutture. Rispondendo a un questionario dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, il 58 per cento dei professionisti ha ammesso di aver esercitato «attività di medicina difensiva» nel corso dell’ultimo anno.
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Medicina difensiva: ovvero esami, test diagnostici, visite o farmaci prescritti benché consapevolmente inutili. Assegnati pur di evitare complicazioni, pur di assecondare «familiari troppo pressanti» e non «essere citati in giudizio». Una sequela di prassi evitabili che pesa sulle casse pubbliche, a seconda delle stime, fra i 10 e i 14 miliardi di euro. E che soprattutto, e più gravemente, porta un chirurgo “difensivo” su 10 a non «fornire cure potenzialmente efficaci o assistere pazienti se c’è un alto rischio di complicanze». È il segnale più cupo, per chi ha giurato su Ippocrate: non applicare la scienza. Per paura di un tribunale.
Tutti questi pesi, e l’ampio dibattito che da anni sollevano, si trovano ora intrecciati in un testo di legge d’iniziativa parlamentare, approvato a gennaio alla Camera e ora in discussione in Senato. Un testo che regola la responsabilità professionale dei medici intervenendo sui “centri per la gestione del rischio” – che dovrebbero aprire in ogni ospedale, seguendo l’esempio della Toscana; sui premi pagati, gli incidenti accaduti e i risarcimenti liquidati dai servizi sanitari regionali – che dovrebbero essere comunicati e pubblici (mentre ora non lo sono affatto); sui fondi di garanzia per proteggere le vittime. Ma il punto principale è quello che riguarda le responsabilità civili e penali dei medici. Dal punto di vista penale, secondo la nuova norma, i professionisti sanitari che svolgendo la loro attività provocano «per imperizia» la morte o un danno a un paziente risponderanno di omicidio o lesioni personali solo in caso di colpa grave.
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Colpa esclusa se vengono rispettate «le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida», «salve le rilevanti specificità del caso concreto». Sulla responsabilità civile, invece, una sentenza di Cassazione del 1999 aveva stabilito un precedente secondo il quale in base al “contratto sociale” fra un cittadino e le mani in cui si pone per le cure, l’onere della prova, in caso di errore, è in capo alle strutture e ai loro dipendenti. Non alla vittima.
Ora il testo separa due percorsi: da una parte promette di rendere più veloci, pragmatiche e certe le cause per ottenere un rimborso economico contro un ospedale: si potrà procedere direttamente verso la compagnia assicurativa; dall’altra alza ostacoli a chi vuole portare alla sbarra il diretto responsabile – in questo caso dovrà essere la vittima, d’ora in poi, a dimostrare la negligenza, l’impreparazione o il dolo del dottore.
vittime in ospedale
È questo ribaltamento il punto più discusso delle legge. «Per come è scritta, la norma è sbilanciata a difesa dei medici», commenta Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale del Malato di Cittadinanzattiva: «Come può un paziente anestetizzato rendersi conto di quello che succede intorno a lui? O i familiari ritrovare traccia di quello che è successo in cartelle cliniche scritte male, vaghe e imprecise? Se l’onere della prova sarà a carico delle vittime, questo deve essere reso possibile».
Come? «Abbiamo presentato due richieste in Senato: la sala operatoria è paragonata spesso a un aereo; quello che manca allora, è la scatola nera», spiega: «Bisognerebbe introdurre le videoregistrazioni obbligatorie durante le operazioni. Ed estendere le cartelle cliniche elettroniche a tutti gli ospedali». L’altro nodo è quello del “canale privilegiato”, le cause contro le strutture: dev’esserci la certezza dei fondi con cui verranno coperte. «Per questo abbiamo previsto la stesura di una serie di requisiti contro le compagnie di dubbia provenienza», spiega Federico Gelli, relatore alla Camera del testo: «E ci saranno linee guida perché i criteri siano omogenei su tutto il territorio nazionale. Mentre per le tabelle risarcitorie il riferimento è già stato inserito nel decreto Concorrenza».
Ti porto in tribunale
L’obiettivo dei firmatari è portare al trasferimento dalle forme miste presenti oggi a contratti in mano a società private. «Deve tornare a essere un “business”», spiega il relatore: «Le grandi società, quelle solide, erano scappate perché in Italia non c’erano certezze». E molti servizi sanitari, per forza o per risparmiare, avevano adottato da tempo forme di “autoassicurazione”: fondi accantonati per far fronte agli indennizzi, senza passare dalle compagnie.
La Liguria nel 2014 aveva messo da parte 25 milioni: passando da una società esterna ne pagava prima 31. E sempre più Asl hanno seguito questa strada. Ma spesso senza tenere davvero in tasca le risorse sufficienti. Nel 2012, monitorava l’Ania (associazione nazionale fra le imprese assicuratrici) erano stati pagati premi per 543 milioni di euro. Il costo medio degli incidenti liquidati si era alzato a 52.368 euro nel 2014. Mentre il tasso di richieste che rimangono senza seguito è scivolato dal 64 del 1994 al 17,2 di adesso: segno per Cittadinanzattiva che le denunce sono giuste. Mentre per le associazioni dei medici è un sintomo delle speculazioni: in sede penale le condanne sono solo fra il 3 e il 5 per cento del totale.
Discipline a rischio
Si alzano le cause, insomma, e quindi i premi e i pesi. I professionisti, per le polizze di “primo rischio” arrivano oggi a spendere più di 25mila euro l’anno. Con la nuova legge invece i dipendenti degli ospedali saranno tenuti ad assicurarsi solo per la copertura della “rivalsa”, l’azione che i dirigenti sanitari potranno chiedere contro i condannati. Le stime di Ania sostengono che peserà fra i 30 e i 40 euro l’anno per un infermiere, fra i 200 e i 300 per i medici.
«Vorremmo recuperare un rapporto di fiducia fra medico e paziente», conclude Gelli. «Per farlo, bisognerebbe investire davvero in trasparenza», insiste però Aceti: «Bisognerebbe diffondere e rendere fruibili ad esempio i dati del “ programma nazionale esiti ”, che valuta volumi e risultati dei reparti, per permettere a tutti di scegliere in base alla sicurezza e alla qualità dei servizi dove andare per un’operazione. Non in base ai suggerimenti degli amici».
Paradossalmente, però, in tutto questo, la questione più discussa non è stata nemmeno sfiorata dalla legge: gli studi di avvocati che promettono rimborsi facili attraverso cause gratis, quegli annunci sul Web o le pubblicità in sala d’aspetto che presentano numeri verdi da chiamare per firmare al più presto un esposto e spartirsi i risarcimenti dovuti dalle assicurazioni di medici e ospedali, continueranno indisturbati. Il nodo delle “cause temerarie” in sanità infatti non è stato affrontato dal testo, né dagli ordini. Intoccati, gli studi continuano così a promuovere offerte e pagare pubblicità su Google per promettere «rimborsi certi» e «80 per cento dei casi vinti».
di Francesca Sironi
21 marzo 2016