Terzo figlio di Margaret Ross, casalinga innamorata di libri e di DeForest artista e designer, David nacque il 17 novembre 1934 a Chicago. Costretto da bambino a letto per mesi dalla poliomelite, recuperò completamente le forze fino a diventare un ottimo corridore. Seguendo l’esempio della madre divenne presto un vorace lettore e, diceva lui, il più giovane membro della Barbershop Harmony Society, la prima di una serie di organizzazioni finalizzate a promuovere e conservare la barbershop music come forma artistica. Ricordava la sua grande casa vittoriana alla periferia di Chicago come un luogo pieno d’amore, frequentato da chiassosi bambini del vicinato e border collies, musica classica e di cornamusa e con tanti libri per tutte le età. Sackett visse in case simili per tutta la vita: in quella di Oxford ho avuto il piacere di essere ricevuto nel luglio del 1998 solo dopo aver accettato di firmare un enorme guest book che troneggiava nell’ingresso.
Conseguito il diploma al Lawrence College, per il suo futuro professionale era dibattuto tra due passioni, la zoologia e la fisiologia, anche se iniziava ad appassionarlo anche l’epidemiologia, in particolare dopo la lettura di Arrowsmith, un romanzo di Sinclair Lewis che narrava di un medico alle prese con un focolaio di peste bubbonica (14). Insegnanti e amici lo convinsero a studiare medicina per avvicinarsi alla fisiologia.
Dopo la laurea alla University of Illinois conseguì il dottorato alla University of Bern e il Master of Science in Epidemiology alla Harvard University. Nel 1962 fu richiamato nell’US Public Health Service in seguito alla crisi missilistica di Cuba. A Buffalo, New York, letteralmente sedotto da alcuni epidemiologi, si allontanò progressivamente dalla sua carriera di fisiologo, interessandosi a come applicare i metodi dell’epidemiologia alla medicina clinica. A questa insolita combinazione Sackett diede il nome di “epidemiologia clinica”, un termine in realtà non originale, coniato negli anni ’30 per allontanare i medici dai pazienti, mentre Sackett voleva andare esattamente nella direzione opposta. Nel 1963, folgorato da un articolo sull’algebra booleana e la tassonomia clinica di Alvan Feinstein — medico e ricercatore di Yale — gli manifestò la sua ammirazione con una lettera. Da quel momento Feisntein divenne mentore di Sackett.
Un altro suo mentore fu Walter Holland, professore di epidemiologia clinica alla St. Thomas’s Hospital Medical School di Londra. Si narra che nei primi anni ‘60 Holland volesse denominare la sua divisione “Dipartimento di medicina sociale”, ma qualcuno gli ricordò che non avrebbe mai ricevuto un visto per gli USA. Holland quindi ripiegò su “Dipartimento di Epidemiologia”, ma lo informarono che questa scelta avrebbe comportato salari inferiori per il suo staff; scelse dunque “Dipartimento di Epidemiologia Clinica”. Sackett trascorse un anno sabbatico con Holland che nel 1966 lo “raccomandò” a John Evans, professore alla McMaster University in Canada. Evans contattò subito Sackett perché voleva lanciare una scuola di medicina “diversa” e non aveva un buon feeling con gli esperti di sanità pubblica canadesi. Sackett, tuttavia, non era interessato a quel lavoro perché non era pronto a lasciare gli USA, dove era fermamente intenzionato a lasciare una traccia. Evans chiese a Sackett un consiglio riguardo a quale dipartimento di medicina sociale e di comunità dovesse afferire la nuova scuola e Sackett rispose “Nessuno”, perché pensava che tutti i medici dovessero occuparsi di queste tematiche. Anche Evans era giunto alle stesse conclusioni. Evans allora gli chiese quali corsi organizzare per insegnare epidemiologia e statistica agli studenti di medicina. La risposta di Sackett fu sempre “Nessuno”, perché “queste discipline dovrebbero essere insegnate nell’ambito di quelle cliniche. […] In caso contrario studenti e docenti si odierebbero a vicenda e sarebbe un disastro”. Ancora una volta era quello che Evans voleva sentirsi dire: non ci sarebbe stato nessun nuovo corso, perchè gli studenti dovevano apprendere dai problemi dei pazienti. Questo modo di concepire la formazione medica veniva da un altro mentore di Sackett, William Spaulding, psichiatra di Toronto .
Per ammissione dello stesso Sackett, Evans scambiò “un novizio per un saggio” e gli chiese di tornare per un secondo colloquio. Sackett venne assunto alla McMaster nel 1967 e cominciò a tenere i primi corsi agli studenti nel 1969, a 35 anni. “Ero un ragazzino impaurito — affermò — non avevo mai ottenuto un finanziamento per la ricerca, le mie pubblicazioni riguardavano esclusivamente la ricerca di base. Chi avrebbe voluto lavorare con me o concedere fondi per portare avanti le mie ricerche?”. Tuttavia era molto ambizioso. Capì che essere spaventato non era compatibile con la sua cattedra nella nuova scuola di medicina. Doveva sforzarsi di essere “un inguaribile ottimista, convinto che tutto sarebbe andato alla grande, in maniera straordinariamente positiva, e godere dei successi degli altri”. Questo modo di fare gli consentì di attirare collaboratori eccezionali e notevoli finanziamenti. Lo scrittore Kurt Vonnegut, uno dei miti di Sackett, affermava che “si diventa quello che si pretende di essere, quindi occorre fare attenzione a quello che si pretende”. Anni dopo Sackett trovò un report relativo al suo dipartimento che lo descriveva come un uomo “con un’aria di grandiosità”: Evans aveva sottolineato quella frase annotando a margine “Grazie a Dio, altrimenti non avrebbe mai avuto il coraggio di provare”.
Durante gli anni alla McMaster University (1967-1994) Sackett fece da mentore a una nuova generazione di ricercatori clinici con i quali lavorò per creare e diffondere l’EBM in tutto il mondo. I suoi team di ricerca furono i primi a documentare nei pazienti a rischio di stroke l’efficacia dell’aspirina (15) e della endoarteriectomia carotidea (16,17), a sviluppare strategie efficaci per la migliorare la compliance dei pazienti ipertesi (18,19) e a generare robuste prove di efficacia della pratica infermieristica (20,21). Secondo il gruppo Cochrane canadese, Sackett “trasformò la ricerca clinica in uno sport di squadra multidisciplinare scientificamente valido, migliorando la qualità della ricerca e della pratica clinica”. Infatti, se la differenza fondamentale tra la medicina moderna e le arti curative del passato consiste nel suo approccio scientifico, solo pochi hanno fatto più di Sackett per promuoverlo. Il metodo del critical appraisal sviluppato da Sackett e i suoi collaboratori alla McMaster University venne condiviso con la comunità scientifica grazie a una serie di articoli pubblicati nel 1981 sul Canadian Medical Association Journal (22-26). Dopo 5 anni gli Annals of Internal Medicine ospitarono un aggiornamento della serie ribattezzata “How to keep up with the medical literature” (27-32).
Nel 1981, durante un anno sabbatico a Dublino, Sackett iniziò la stesura di Clinical Epidemiology: a Basic Science for Clinical Medicine, pubblicato nel 1985 come monografia sul critical appraisal (33), aggiornata nel 1991 (34) e integrata nel 2005 con una sezione di metodologia della ricerca (35). Nel 1988 Sackett ebbe la geniale intuizione del number needed to treat quale misura ideale per trasferire i risultati dei trial clinici al paziente individuale (36). Negli anni Novanta lanciò parallelamente su JAMA due serie di articoli: Users’ Guides to the Medical Literature (37) la serie più nota di contributi sul critical appraisal poi integrati in un manuale (38) e The Rational Clinical Examination (39,40), con l’obiettivo di “rendere scientifiche anamnesi ed esame obiettivo”, due attività fondamentali della pratica clinica mai valutate con metodo scientifico.
Il 4 novembre 1992 venne pubblicato su JAMA l’articolo “manifesto” che presentava l’EBM alla comunità scientifica internazionale, come un nuovo approccio per insegnare e praticare la medicina (41). Le reazioni negative non si fecero attendere — secondo Sackett — “tra professionisti mediocri abituati a fare proclami”. In particolare, l’editoriale Evidence-based medicine, in its place (42), pubblicato su The Lancet nel 1995, fu molto offensivo per Sackett, protagonista del movimento per i diritti civili, perché evocava lo slogan americano “i neri sono ok al loro posto”. Sackett rimase molto ferito da questo articolo, ritenendolo un “estremo screditamento da parte dell’establishment britannico”. Replicò con un editoriale sul BMJ firmato insieme ad altri collaboratori dal titolo Evidence based medicine: what it is and what it isn’t (43), dove precisava che l’EBM va oltre il critical appraisal perché integra le migliori evidenze della ricerca con l’esperienza del medico e con valori, aspettative e preferenze del paziente. L’editoriale contestò con precisione tutte le affermazioni contro l’EBM, che non era un cappello vecchio, impossibile da mettere in pratica, un libro di ricette o l’esclusiva applicazione di trial controllati e randomizzati.
Nel 1994, grazie all’opera di convincimento di Muir Gray, Sackett sbarcò a Oxford dove lavorò come clinico al John Radcliffe Hospital e come direttore del Centre for Evidence-Based Medicine. Era interessato a diffondere l’EBM non solo a Oxford, ma in tutto il Regno Unito, in Europa e anche oltre. Sackett visitò la maggior parte degli ospedali britannici e molti ospedali europei con l’obiettivo di dimostrare le potenzialità dell’EBM durante il giro di visite in corsia. Paul Glasziou — professore di EBM alla Bond University in Australia — ha un ricordo ancora vivido: “Uno studente utilizzò un ausilio decisionale per calcolare la probabilità di anemia in un paziente e i medici consultarono una revisione sistematica sull’accuratezza diagnostica della ferritinemia. Era un approccio completamente diverso dalle visite tradizionali che avevo sempre effettuato”. Nel 1998 Sackett effettuò oltre 100 visite durante le quali i giovani medici realizzarono che potevano sfidare i loro superiori con armi diverse dalla medicina basata sull’esperienza o sull’autorità: una sensazione liberatoria e democratizzante. L’inventiva di Sackett arrivò anche a concepire l’evidence cart (44), un “carrello delle evidenze” trasportato in corsia durante le visite per aiutare i medici a trasferire le evidenze al letto del malato. Il carrello conteneva computer, videoproiettore, MEDLINE e il database Cochrane su CD-ROM, libri di testo e raccolte di linee guida basate sulle evidenze.
Nel 1993 le 77 persone da tutto il mondo che presero parte al primo Cochrane Colloquium a Oxford lo scelsero all’unanimità come presidente dello steering group della Cochrane Collaboration (45), descritta da lui come “un aeroplano sul quale stavamo già volando mentre lo costruivamo (46). Nel 1995, sulla scia del successo di ACP Journal Club, fondò la rivista Evidence Based Medicine per “aiutare i medici a trovare le informazioni necessarie” (47).
Nel 1997 pubblicò la prima edizione del manuale Evidence Based Medicine: How to Practice and Teach EBM (48), che ha venduto 150.000 copie in inglese ed è stato tradotto in numerose lingue. Peter Richardson, al tempo direttore editoriale della Churchill Livingstone, racconta di aver intuito di “avere un tesoro tra le mani quando la prima tiratura di 2.500 copie andò esaurita nel giro di una settimana. La prima edizione vendette 40.000 copie e fu seguita nel 2000 da una seconda edizione che includeva un CD-ROM” (49). Oggi il manuale è giunto alla quarta edizione. L’EBM divampò come un incendio e il suo successo secondo Sackett era legato principalmente a due ragioni: era supportata da alcuni medici esperti sicuri della loro pratica clinica e felici di essere messi alla prova, e potenziata da giovani medici entusiasti e poi anche da infermieri e altri professionisti sanitari. Sackett immagginava di dover dedicare almeno dieci anni alla diffusione dell’EBM, ma il processo fu talmente rapido che dopo 4 anni non c’era più alcuna necessità a riguardo.
I suoi colleghi lo apprezzavano per il suo senso dell’umorismo: mentre stava testimoniando in un processo come perito, un avvocato gli sottopose un articolo che pretendeva di dimostrare la sicurezza del farmaco di cui si discuteva. Lui lesse l’articolo e concluse che era assolutamente inadeguato dal punto di vista metodologico. L’avvocato incalzò: “Nessun problema, potrei prendermi diversi giorni e mostrarle dozzine di altri articoli sull’argomento, ma la giuria in questo caso mi lincerebbe” insisteva l’avvocato. Sackett rispose: “Mi piacerebbe”. “Beh, potremmo rivederci dopo il processo per esaminare questi articoli insieme”. Sackett replicò: “No, intendevo che mi piacerebbe assistere al suo linciaggio”.
Una delle affermazioni più note di Sackett era che dopo 10 anni passati ad essere esperto di qualcosa, bisogna smettere, perché alle tue opinioni viene dato un peso eccessivo ed è tempo di iniziare a pensare in maniera differente. Negli anni per lui continuavano ad accumularsi i riconoscimenti di “esperto”, in particolare l’esperto per eccellenza in EBM, con l’aggravante di un neologismo, la “sackettizzazione”, da lui definita come “la connessione opportunistica di una pubblicazione al movimento EBM per mere logiche commerciali”. Ma secondo il suo punto di vista gli esperti “ostacolano il progresso delle conoscenze e danneggiano i giovani” (50). Ecco perché Sackett nel 1999 dopo la sua ultima lezione di EBM a Cracovia, all’età di 65 anni lasciò Oxford e tornò in Canada, iniziando quella che lui stesso descrisse come la sua ottava carriera. Creò il Trout Research and Education Centre, dove si dedicò alla lettura, alla ricerca e all’insegnamento della metodologia dei trial randomizzati che ispirò la sua “ultima serie” di articoli, ospitata da Clinical Trials (51).
In quel periodo lanciò insieme a Ian Chalmers ed Andy Oxman HARLOT plc, un’azienda di nicchia specializzata in “Come ottenere risultati positivi aggirando la verità senza per forza mentire” (52). L’idea era quella di fare soldi, ma per ammissione dei suoi stessi “soci” si erano sbagliati di grosso! Infatti, come raccontano Chalmers e Oxman: “Barbara, moglie ed eterna complice di Dave va ancora in giro con il suo pick-up malconcio e con la sua barchetta a remi piena di falle. Dave sperava di rimpiazzarli grazie ai profitti di ricchi clienti che ci avrebbero pagato per preparare protocolli di ricerca in grado di fornire loro le risposte necessarie a vendere i loro prodotti o di pubblicare (o nascondere) report che non gli davano le risposte che volevano. Sfortunatamente la passione di Dave per la scienza era più forte del nostro desiderio di diventare ricchi”.
Dave fece da mentore a 300 giovani, molti dei quali sono oggi dei luminari. Fare da mentore e avere dei mentori fu importante per lui in tutte le sue carriere: a questo dedicò il suo ultimo sforzo editoriale, insieme a Sharon Straus, per riempire il gap nella letteratura su come essere un buon mentore (53), ribadendo che la capacità di “dire no” era una delle cose più importanti da insegnare ai giovani per fare carriera (54-56).
Sackett, che si è sempre definito un uomo del nord, visse i suoi ultimi anni da grande uomo, affettuoso e passionale con la moglie Barbara, in una casetta di legno nei pressi di un lago ghiacciato per quasi tutto l’anno, invitando familiari e amici per un giro in canoa. Quando studenti e colleghi gli chiedevano di svelare la chiave del suo successo, Sackett elencava diverse ragioni: “una insopprimibile capacità di trovare e infondere divertimento in tutto quello che ho fatto (talvolta a danno di altri)”. Citava poi il supporto continuo e amorevole, l’incoraggiamento e la comprensione di Barbara e dei loro 4 figli ed andava fiero dei brillanti giovani ai quali aveva insegnato e di cui era stato il mentore e della propria “abilità di tradurre, demistificare, spiegare, promuovere, rendere popolari la metodologia della ricerca”.
David lascia la moglie Barbara, 4 figli, 8 nipoti e… qualche milione di “EBMers” sparsi in tutto il mondo.
Antonino Cartabellotta