“Autismo” è una parola che fa paura ma che forse, alla luce dei tempi moderni, dovrebbe essere riconsiderata. Il termine origina dal greco autós, se stesso, e indica l’autoreferenzialità assoluta, la tendenza ad amplificare tutto ciò che proviene dal proprio essere e dai propri comportamenti, negando ciò che è differente da sé o si riferisce ad altri.
Una sorta di mancanza del senso di realtà. Forse anche per questo in principio l’autismo era classificato tra le psicosi infantili, il cui nucleo sintomatologico era, ed è tuttora, proprio la scarsa aderenza alla realtà.
Negli ultimi decenni la concezione del disturbo, e dunque l’approccio al trattamento, hanno subìto importanti modifiche, che in realtà sono andate di pari passo con un cambiamento culturale della nostra società.
Una volta un padre mi disse: «Dottore, mi faccia capire, in parole semplici, che cos’è l’autismo». La risposta più esemplificativa che sul momento mi venne fu: «Un disturbo delle relazioni sociali». Lui, di rimando, tra l’ironico e lo sconfortato ribatté: «Ah, andiamo bene… Quali relazioni sociali? Quelle virtuali sui social network, dove sono tutti tanto bravi a ostentare emozioni e rapporti senza poi riuscire a viverli nella vita reale? Oppure le relazioni sociali nelle grandi città, dove sembra di conoscere tutti e poi ci si accorge che l’ultima volta che abbiamo guardato negli occhi un passante risale ad anni prima? O le relazioni sociali di alcune persone tanto prese dall’attenzione maniacale per il proprio corpo o le proprie passioni che si scordano di interagire con gli altri? Mi dica lei qual è la differenza con le presunte atipie o gli interessi ristretti delle persone autistiche…».
Non nego che la sua risposta mi spiazzò, perché, nonostante tradisse una certa quota di negazione nei confronti della patologia del figlio, dovevo riconoscere che mi trovava in parte d’accordo. Poiché non volevo finire a ragionare sui cambiamenti culturali che negli ultimi anni hanno comportato una drastica rimodulazione delle relazioni sociali, sul momento feci quello che il mio ruolo di medico imponeva, e dunque chiarii perché non ci fossero equivoci: «L’autismo, in quanto disturbo neuropsichiatrico, compromette quella che è una normale funzionalità quotidiana. Paragonarlo alla deriva di una parte dei giovani sui social network, o ad altre malsane abitudini metropolitane, è concettualmente sbagliato e non ci consente di fare quello che è giusto in questi casi: terapie mirate, con lo scopo di ridurre il più possibile il deficit relazionale».
In questa sede mi permetto invece di fare un passo indietro, e una considerazione che si muove tra una verità scientifica ancora discussa e una provocazione ideologica nei confronti di una società sempre più sorda e introflessa sui propri bisogni.
Il versante scientifico riguarda la denominazione stessa del disturbo: come già accennato, il concetto di “spettro autistico” delinea un approccio dimensionale più che categoriale. Per chiarire la differenza: in ambito medico l’approccio categoriale viene utilizzato con alcune malattie, per esempio l’epilessia, il diabete o l’epatite, che prevedono una diagnosi dicotomica “sì/no” (presenza o assenza del disturbo); l’approccio dimensionale si usa invece per altre patologie, come l’ipertensione, che prevedono una diagnosi “quantitativa”. Per esempio, si può essere “lievemente ipertesi”, ma faccio fatica a immaginare che si possa essere “lievemente epilettici”.
L’approccio dimensionale su cui la scienza sta focalizzando la sua attenzione considera dunque, per formulare la diagnosi di autismo, la gravità di quei sintomi che, se esasperati, possono compromettere le relazioni sociali e, di conseguenza, portare a un disturbo vero e proprio. Non a caso, negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi che hanno dimostrato come alcuni tratti autistici siano presenti nella popolazione generale, e come le persone con diagnosi di autismo siano semplicemente la “punta dell’iceberg” di una distribuzione di sintomi autistici che riguarda anche tutti gli individui classificati come “normali”.
Di recente sono stati sviluppati dei questionari, somministrabili a prescindere dal sospetto di una diagnosi di autismo, che indagano il quoziente di autismo presente nella singola persona. Il più famoso e utilizzato è l’aq (acronimo di Autismspectrum Quotient), pubblicato nel 2001 da un gruppo di ricerca di Cambridge che fa capo allo psicologo Simon Baron-Cohen. L’aq consiste in cinquanta domande che indagano le relazioni sociali, le capacità comunicative, l’immaginazione, l’attenzione ai dettagli, la possibilità di modificare il focus attentivo e la tolleranza ai cambiamenti.
È forse dovuto a questo nuovo approccio dimensionale, e a un migliore affinamento degli strumenti diagnostici, che sono diventati sempre più dettagliati nel riconoscere i sintomi autistici, l’aumento dell’incidenza del disturbo osservata nel corso degli ultimi anni. Le comunicazioni scientifiche ufficiali si riferiscono proprio agli aspetti sopra descritti per spiegare che il crescente numero di casi è dovuto a una migliore capacità di fare diagnosi piuttosto che a un reale aumento dell’incidenza. Io, in tutta onestà, tanto convinto non sono. Sarà che, occupandomi prevalentemente di questo disturbo, tendo a vederlo ovunque, sarà che ho sviluppato una particolare sensibilità a riconoscere i sintomi autistici, sta di fatto che, anche a prescindere dagli ambulatori clinici e dai casi in cui il confine tra patologia e sintomi non riferibili al disturbo è molto sottile, sono sinceramente colpito da quanti amici o conoscenti mi chiedano aiuto per un caso di autismo in famiglia.
Anche senza addentrarsi tra gli studi scientifici, basta dare uno sguardo alla nostra società per capire che il lamento di quel padre aveva qualche fondamento, e che molto sta cambiando nel nostro modo di stare in relazione.
Nella pratica clinica mi capita non di rado di incontrare genitori che comunicano prevalentemente scambiandosi e-mail, ed è sempre più frequente – non solo tra i giovani – vedere gruppi di persone, sedute a cena intorno a un tavolo, che passano la gran parte del tempo a testa bassa, intente a mandare messaggi o scaricare l’ultima applicazione per lo smartphone, senza accennare alla forma più elementare di comunicazione. O, almeno, di quella comunicazione a cui eravamo abituati fino a qualche anno fa.
Anche osservando le modalità di gioco dell’età infantile, i cambiamenti culturali appaiono evidenti. Il periodo dei cortili dove i bambini si riunivano per tirare calci a un pallone sembra estinto e oggi li si vede isolarsi sempre di più, attratti da tablet, telefonini o videogiochi assai ripetitivi, verso cui alcuni sviluppano una dipendenza quasi ossessiva, che assottiglia i confini tra quello che, ai nostri occhi, è normale e quello che è patologico.
È difficile prevedere dove ci porterà tutto questo. C’è addirittura chi sostiene che, in questo “periodo barocco” della comunicazione, gli autistici rappresentino l’avanguardia della società futura. Io non saprei dire. Senza cadere in banali generalizzazioni, che rischiano di ledere la dignità di chi, la condizione autistica, la vive realmente e di delegittimare lo sforzo dei genitori che si fanno carico della pesantezza di una patologia cronica e complessa, vorrei comunque chiudere queste righe con una provocazione culturale a cui accennavo poco fa: e se, alla fine, fossimo tutti un po’ autistici?
Luigi Mazzone (neuropsichiatra infantile Opbg Roma)