I confini del regime autorizzatorio delle attività sanitarie. Ipotesi di violazione dell’art. 193 T.U.L.S. r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 e successive modifiche.
In relazione al quesito postomi sono a rassegnare quanto segue: al fine di valutare compiutamente la legittimità delle contestazioni mosse dall’ASP3 Catania nei confronti di diversi studi professionali per avere Medici di Medicina Generale condiviso lo studio con altri colleghi specialisti ritengo, sulla scorta degli approfondimenti effettuati, che la questione verta sulla qualificazione che viene data ai suddetti dall’Azienda e la stessa necessita, pertanto, di una breve disamina sulla tematica delle autorizzazioni alla realizzazione e all’esercizio di attività sanitarie. Norma statale è la previsione contenuta nell’art. 193 T.U.L.S. r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 secondo la quale “nessuno può aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico case o pensioni per gestanti, senza speciale autorizzazione del prefetto, il quale la concede dopo aver sentito il parere del consiglio provinciale di sanità” (con D.P.R. del 10 giugno 1955 n. 854 al Prefetto venne sostituito il Sindaco). La suddetta norma, a carattere generale, deve essere però letta congiuntamente con la disposizione speciale dettata dall’art. 8 ter D.Lgs n. 502 del 1992 per gli studi odontoiatrici che non prestano attività diagnostica rischiosa. In particolare, il suddetto articolo, inserito dall’art. 8, comma 4, del D. Lgs 19 giugno 1999 n. 229 e successive modifiche assoggetta ad autorizzazione gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie eroganti prestazioni di chirurgia ambulatoriale, ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un concreto rischio per la sicurezza del paziente. Comunemente, l’esercizio contemporaneo di più attività professionali sanitarie all’interno della stessa struttura configura un ambulatorio o un poliambulatorio. Tuttavia tale visione conduce all’estrema conseguenza di qualificare l’attività medica sempre e in ogni caso come attività d’impresa, ossia anche quando non ne sussistano i requisiti. Tuttavia, si tratta di realtà mediche molto diverse. Ed infatti tra ambulatorio e studio medico corre la stessa differenza che sussiste tra l’esercizio di attività d’impresa ai sensi dell’art. 2082 e 2555 c.c. e l’esercizio di una professione intellettuale ai sensi dell’art. 2229 c.c. In particolare, è Ambulatorio o Poliambulatorio la struttura inquadrata in un contesto aziendale, dotato di propria individualità ed autonomia, strutturata in modo da essere in esercizio indipendentemente dalla presenza o, addirittura, dalla figura di un titolare ed a servizio dell’attività professionale di una pluralità di sanitari. La Suprema Corte qualifica Ambulatorio “l’esistenza di una struttura organizzativa complessa, caratterizzata da un insieme di risorse umane e organizzative per lo svolgimento dell’attività, attrezzata ad erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale nel campo della chirurga plastica (estetica, dermatologica, flebologica-vascolare)….mediante procedure di particolare complessità, con l’intervento contemporaneo di più operatori, svolte con l’assistenza di professionisti/collaboratori esterni, specializzati nei rispettivi campi di prestazione medica, con assistenza anestesiologica” (Cass. Civ., Sez. II, 19/03/2010 n. 6719). Mentre lo Studio Medico è quello nel quale si esercita un’attività sanitaria il cui profilo professionale si appalesa assolutamente prevalente rispetto a quello organizzativo (Cass. Sez. I, 14/1/98 n. 256). Sulla base di tale premessa, la prevalente giurisprudenza ha poi rilevato che “lo studio medico, per rimanere tale e non configurare un ambulatorio, deve essere inscindibilmente legato all’attività professionale del soggetto titolare o dei titolari associati, con profilo prevalente di tale attività su quello organizzativo e conseguenti effetti anche sul piano della configurazione della struttura” (Consiglio Stato, Sez. III, 27/03/20017 n.1382 – Consiglio Stato, Sez. V, 20/12/2013 n.6136; Cass. Civ., Sez. II, 19/03/2010 n. 6719). Dicasi lo stesso per gli Studi Medici Associati, nei quali la responsabilità professionale rimane comunque in capo al singolo professionista. La loro costituzione permette a più medici di condividere gli oneri correlati alla gestione dello studio, senza che ciò comporti lo svolgimento di attività d’impresa. Difatti ogni professionista dispone in forma esclusiva di propri locali espressamente destinati all’esercizio dell’attività espletata, i quali non possono essere utilizzati da altri professionisti per l’esercizio di altra attività medica. E’ necessario però considerare che con l’evolversi della tecnologia in campo sanitario, il termine “studio medico” si è venuto ad applicare ad attività molto diverse: da quelle di carattere strettamente diagnostico, improntate sul rapporto professionista-utente, senza la necessità dell’utilizzo di particolari attrezzature, a quelle di carattere più complesso, riguardanti ad esempio l’utilizzo di tecniche chirurgiche. In considerazione di tale evoluzione, la Regione Lazio ha dato espresso riconoscimento ad una realtà, oramai sempre più diffusa, ossia quella dello Studio Polimedico. Come tale deve intendersi quello studio in cui più medici esplicano la propria attività professionale specialistica, in maniera indipendente l’uno dall’altro, ma condividendo gli spazi comuni. Si tratta sempre dunque di uno studio professionale. Invero, la distinzione tra “studio e ambulatorio” discende anche dal fatto che l’ambulatorio è aperto al pubblico mentre lo studio è aperto, tipicamente, alla sola clientela professionale; inoltre, l’ambulatorio è caratterizzato da una struttura amministrativa e tecnica “centralizzata” e “coordinata” tra i vari soggetti che ivi esercitano, mentre lo studio non è dotato di particolari attrezzature che, se presenti lo qualificherebbero invece, come ambulatorio. Quest’ultimo poi soggiace a precisi obblighi di legge a cui sfugge invece lo studio, e tra questi, l’obbligo di autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria previsto dal citato art. 193. Il codice civile prevede difatti l’obbligo di conseguire il titolo autorizzativo all’esercizio soltanto nel caso in cui l’attività sanitaria sia organizzata in forma d’impresa (2238 e 2082 e ss. del cc.), risultando in tal senso sempre prevalente la componente organizzativa rispetto a quella di professione intellettuale. Con l’entrata in vigore del d.lgs. 229/1999, si è però registrato un mutamento di approccio nell’ambito dell’ampia categoria degli studi medici. In particolare, attraverso l’introduzione dell’art. 8-ter nel d.lgs. 502/1992 si è collegata la necessità dell’autorizzazione, non più soltanto all’esistenza di un ambulatorio anziché di uno studio medico, ma anche allo svolgimento da parte dello studio medico di determinate attività. Alla stregua della sopra riportata distinzione tra studio medico e ambulatorio, il Legislatore ha differenziato le fattispecie per le quali risulta obbligatoria la suddetta autorizzazione sanitaria, circoscrivendo le ipotesi di violazione alle seguenti: qualora erogate da Strutture (e in queste vi rientrano Ambulatori e Poliambulatori): le prestazioni in regime di ricovero ospedaliero a ciclo continuativo o diurno per acuti; le prestazioni di assistenza specialistica in regime ambulatoriale, ivi comprese quelle riabilitative, di diagnostica strumentale e di laboratorio; le prestazioni in regime residenziale a ciclo continuativo o diurno; qualora erogate da Studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie all’uopo attrezzati: le prestazioni di chirurgia ambulatoriale; le procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente. Nonché per le Strutture esclusivamente dedicate ad attività diagnostiche anche a favore di soggetti terzi. Invero, per attività di chirurgia ambulatoriale si intende “la possibilità clinica, organizzativa ed amministrativa di effettuare interventi chirurgici ed anche procedure diagnostiche e/o terapeutiche invasive o semi-invasive, senza ricovero, in ambulatorio, che non prevedono durante la loro esecuzione la perdita di coscienza o di mobilità di segmenti scheletrici; pertanto devono essere somministrate dosi di anestetico locale tali da consentire all’utente di deambulare al termine dell’atto chirurgico” ovvero allorquando il livello delle prestazioni di chirurgia effettuata nello studio supera il livello di chirurgia ordinaria semplice. Orbene, dal dato testuale emerge la volontà del Legislatore di circoscrivere i margini del regime autorizzatorio delle attività sanitarie esercitate dallo Studio Medico (singolo o associato) alle sole prestazioni invasive che comportino un rischio per la sicurezza del paziente. Il Legislatore, dunque, nel disciplinare la tipologia di Studi Medici sottoposti ad autorizzazione, concentra la propria attenzione sulla complessità e pericolosità per il paziente e sulla natura delle prestazioni ivi erogate. Ordunque, sulla scorta del superiore indirizzo ed anche alla luce di quello attuale dottrinale e giurisprudenziale, ne discende che non sono soggetti ad autorizzazione gli studi professionali medici destinati “all’esercizio dell’attività libero – professionale nei quali il medico esercita la propria attività, comprensiva anche di diagnostica strumentale, svolta esclusivamente nei confronti dei propri pazienti a scopo diagnostico complementare all’attività clinica”. Nei confronti dei suddetti l’A.S.L. effettua solo “la vigilanza per assicurare il rispetto della normativa in materia di igiene e sanità pubblica, nonché tutti gli altri controlli di competenza previsti dalla vigente normativa in materia di sicurezza” (TAR Salerno 6 febbraio 2015 n.268 – TAR Lazio Roma 29/07/2015 N. 10402 TAR Basilicata Potenza 3 febbraio 2006 n.27). I titolari di tali studi hanno, comunque, l’obbligo di comunicare l’apertura del proprio studio all’Azienda Sanitaria Locale competente per territorio, rimettendo apposita documentazione in ordine ai titoli di studio posseduti, alla planimetria dei locali, alla descrizione dell’attività svolta e all’elenco delle attrezzature eventualmente utilizzate. L’ASL effettua quindi nei confronti dei suddetti studi, solo la vigilanza per assicurare il rispetto della normativa in materia di igiene e sanità pubblica, nonché tutti gli altri controlli di competenza previsti dalla vigente normativa in materia di sicurezza. L’autorizzazione sanitaria non è dunque richiesta allorquando gli studi professionali erogano prestazioni non invasive. Ebbene, sulla individuazione delle suddette prestazioni hanno legiferato diverse regioni, tra le quali la Basilicata (L.R. 5 aprile 2000 n.25), Marche (L.R. 16 marzo 2000 n. 20), Lazio (L.R. n.4 del 2003). Secondo quest’ultima, sono da considerarsi non invasive le seguenti procedure mediche: medicazione; sutura di ferita superficiale; rimozione di punti di sutura e medicazione; fleboclisi; iniezioni endovenose; lavanda gastrica; iniezione di gammaglobuline o vaccinazioni; agopuntura; mesoterapia; iniezione cutanea desensibilizzante; infiltrazione peri e intra articolari; esami citologici e colturali; rimozione di tappo di cerume; drenaggio di ascesso sottocutaneo; asportazione di verruche; trattamento provvisorio di frattura o lussazione mediante immobilizzazione con materiale idoneo – piccoli segmenti – grandi segmenti; atti anestesiologici che non vadano oltre l’anestesia topica o locale; ogni altra prestazione professionale assimilabile alle sopra indicate, secondo le evidenze scientifiche o le vigenti discipline di settore. Orbene, la legislazione statale e quella regionale risultano convergenti. E ciò in considerazione del fatto che la ratio sottesa al regime autorizzatorio de quo è quella della sostanziale tutela della salute degli utenti. Sul punto, la Consulta ha ribadito che “se è condivisibile che la competenza regionale in tema di autorizzazione e vigilanza delle istituzioni sanitarie private vada inquadrata nella potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute (di cui all’art. 117, comma 3, Cost.) resta, comunque, precluso alle regioni di derogare a norme statali che fissano principi fondamentali” (Corte Cost. 07/06/2013 n. 132). A tal proposito si rileva come la Regione Sicilia (GURS n. 20 del 2003 e successive modifiche) ha sostanzialmente riprodotto la disposizione statale, specificando all’articolo 2, gli organi preposti al rilascio dell’autorizzazione, ossia: il Direttore Generale delle Aziende unità Sanitarie Locali per gli Ambulatori e Poliambulatori specialistici, consultori familiari, CTA, SERT etc… il Sindaco per gli studi dei liberi professionisti; l’Assessorato regionale della sanità per le strutture ospedaliere pubbliche e private. Pertanto, la provenienza della contestazione dall’una piuttosto che dall’altra Autorità esplicita già l’inquadramento dato alla parte inadempiente, nei confronti della quale dunque dovranno essere mosse alcune contestazioni piuttosto che altre a fronte della differenziazione di cui al citato art. 8 ter. Orbene, un dato sembra pacifico sulla base della legislazione statale e regionale: a) lo studio medico non attrezzato per la chirurgia, non necessita di alcuna autorizzazione; b) lo studio medico attrezzato per l’esecuzione di prestazioni chirurgiche necessita dell’autorizzazione all’esercizio; c) l’ambulatorio necessita dell’autorizzazione alla realizzazione prima e dell’autorizzazione all’esercizio dopo. In considerazione di quanto sopra rassegnato, e a fronte della previsione di cui all’art. 36 A.C.N. ai sensi del quale “Se lo studio è ubicato presso strutture adibite ad altre attività non mediche o sanitarie soggette ad autorizzazione, lo stesso deve avere un ingresso indipendente e deve essere eliminata ogni comunicazione tra le due strutture”, si ritiene che, nel caso di associazione nello studio con specialisti non soggetti ad autorizzazione, in capo ai Medici di medicina generale non sussiste alcun obbligo di avere una struttura autonoma e indipendente rispetto a quella dei colleghi specialisti. Tuttavia, per quanto sopra rassegnato, la lettura della normativa in materia di autorizzazione sanitaria, come rilevato peraltro dalla più recente giurisprudenza, non può risolversi alla luce degli artt. 32 e 41 della Cost., in uno strumento ablatorio delle prerogative dei soggetti che intendano offrire, anche in regime privatistico, mezzi e strumenti di diagnosi, di cura e di assistenza sul territorio. Al riguardo, sembrerebbe che l’ASP 3 Catania dia una lettura eccessivamente restrittiva della disposizione di cui al citato art. 193. Ed infatti, piuttosto che configurare tout court l’esercizio contemporaneo di più attività professionali sanitarie all’interno della stessa struttura come un ambulatorio o un poliambulatorio con la conseguenza che l’autorizzazione sanitaria risulti essere necessaria ai fini della regolarità dell’attività, dovrebbe invece esaminare ogni singola fattispecie valutando la sussistenza o meno nel singolo Studio dei requisiti richiesta dalla legge ai fini l’obbligatorietà della suddetta.
Avv. Valentina Aldisio