Matthew J. Kan e colleghi hanno usato un particolare ceppo di topi, chiamato CVD-AD, che sviluppa sintomi anatomici (placche amiloidi e fibrille di proteina tau) e comportamentali del tutto simili a quelli dei pazienti umani affetti da Alzheimer.
Monitorando questi topi per tutto il corso della loro vita, i ricercatori hanno constatato che un particolare tipo di cellule immunitarie che risiede stabilmente nel cervello, le cellule della microglia che esprimono il recettore CD11c, iniziava a dividersi e cambiare in corrispondenza delle fasi iniziali della malattia.
In particolare, Kan e colleghi hanno notato che queste cellule abbondavano proprio nelle aree responsabili della memoria – le più colpite dalla malattia – e che la loro presenza era correlata a un forte aumento della produzione di arginasi, un enzima che degrada l’arginina. I livelli di questo amminoacido nel tessuto cerebrale circostante finivano quindi per essere troppo bassi rispetto al fabbisogno dei neuroni.
I ricercatori hanno provato a somministrare a un gruppo di topi, prima dell’insorgenza dei sintomi della malattia, la difluorometilornitina (DFMO), un farmaco noto per la sua capacità di inibire l’attività dell’arginasi. In questi topi si sono sviluppate meno cellule CD11c, meno placche amiloidi e la memoria si è conservata meglio che nei topi non trattati.
“Tutto ciò ci suggerisce che, se si riesce a bloccare questo processo di deprivazione locale di amminoacidi, è possibile proteggere il topo dal morbo di Alzheimer”, ha detto Kan. Va però sottolineato, avvertono i ricercatori, che non si può pensare di proteggersi con una maggiore assunzione di arginina sotto forma di integratori alimentari, sia perché la quantità di amminoacido che arriva al cervello è strettamente regolata dalla barriera ematoencefalica, sia perché, a meno di non bloccare l’arginasi, esso verrebbe subito degradato.
I ricercatori hanno fatto inoltre un’altra sorprendente scoperta: nelle cellule CD11c anomale era aumentata la produzione di messaggeri chimici che inibiscono il sistema immunitario. “Non è quello che si riteneva che avvenisse nella malattia di Alzheimer”, ha detto Kan. Si pensava anzi, ha continuato Kan, che venissero liberate molecole capaci di stimolare l’attività del sistema immunitario, portandolo ad aggredire anche i neuroni sani.